I disturbi specifici dell’apprendimento, meglio conosciuti con i termini di dislessia, disortografia, discalculia, ecc. sono disturbi dello sviluppo che determinano difficoltà a volte molto rilevanti nell’acquisizione delle cosiddette abilità scolastiche (scrittura, lettura e calcolo), cioè di quelle abilità che costituiscono il nucleo principale dell’istruzione, almeno nei primi anni di scolarizzazione.
La ricerca scientifica in questi ultimi anni ha dato un notevole contributo di chiarificazione sulla natura di questi problemi che, fino a qualche anno fa venivano fatti risalire a non meglio determinati problemi di origine psicologica del bambino nei confronti della letto-scrittura.
La difficoltà specifica di lettura (dislessia evolutiva) si manifesta quando un bambino, esposto a normale iter scolastico, non sviluppa, o sviluppa in maniera molto incompleta, o con grandi difficoltà la capacità di identificare in modo automatico la parola scritta. (Gersons-Wolferbensberger & Ruijssenaars 1997) Il termine automatizzazione esprime la stabilizzazione di un processo automatico caratterizzato da un alto grado di velocità e di accuratezza. E’ realizzato inconsciamente, richiede minimo impegno attentivo, ed è difficile da sopprimere, da ignorare e da influenzare.
Questa definizione operativa comprende le cause sia mono che multifattoriali e include sia la presentazione isolata del disturbo (solo dislessia) che le forme complesse. In tutti i casi un ruolo variabile è svolto da fattori personali.
I due autori citati, referenti della Commissione del Governo olandese sulla dislessia ritengono che la Dislessia debba essere considerata come un disturbo o una disabilità nel senso della classificazione internazionale dei Disturbi, Disabilità ed Handicaps (ICIDH).
La stessa definizione operativa è applicabile alla scrittura: un bambino che, dopo un congruo tempo di istruzione continua non apprende, o apprende in maniera incompleta la capacità di scrivere correttamente in modo automatico è da considerarsi disortografico.
Ciò significa che un bambino che, al termine della prima elementare frequentata con continuità, presenta ancora grandi difficoltà nella lettura e nella scrittura potrebbe essere dislessico o disortografico. I successivi accertamenti condotti in ambito specialistico potranno definitivamente chiarire se si tratta di un semplice ritardo di acquisizione o invece di un disturbo specifico di apprendimento che, in quanto tale, farà sentire i suoi effetti per buona parte o per tutto l’arco della scolarizzazione.
Questi disturbi sono spesso preceduti da un ritardo nell’acquisizione del linguaggio verbale, ma si presentano anche in soggetti che fino al momento dell’ingresso a scuola possono non aver manifestato problemi di alcun genere. La comparsa di una difficoltà inattesa, in quanto non preannunciata da alcun segnale premonitore, genera sconcerto negli adulti e frustrazione e disorientamento nel bambino che fino a quel momento non aveva mai ricevuto messaggi di inadeguatezza o di preoccupazione per le sue prestazioni.
Comincia allora una storia che, per chi incontra come noi molti di questi bambini, è purtroppo molto frequente.
L’insegnante si interroga sull’impegno del bambino, sulle sue condizioni familiari, fa spesso congetture astruse o comunque non pertinenti sulle dinamiche familiari, lamenta scarso impegno, disinteresse, rifiuto, a volte problemi di comportamento in classe.
In genere non è in grado di spiegarsi perché il bambino, che in mezzo ai compagni sembra non avere particolari difficoltà, mostra poi rifiuto o grande difficoltà quando gli si chiede di leggere e di scrivere. Richiamandosi al modello di apprendimento sopra esposto secondo cui l’acquisizione di un’abilità è funzione della quantità dell’esercizio, l’insegnante ritiene che il bambino si eserciti poco e lo invita a moltiplicare gli sforzi, ottenendo, nella maggior parte dei casi, un definitivo consolidamento del rifiuto.
I genitori sono perplessi e spesso oscillano fra comportamenti severi e punitivi con inviti all’impegno e lunghi periodi di attesa impotente sperando che il tempo aggiusti ogni cosa.
All’inizio in genere tendono a dare ragione all’insegnante e si associano all’idea che la difficoltà del loro bambino dipenda dallo scarso impegno o da un’insufficiente dose di esercizio. In questa fase il bambino è intrappolato in una morsa di incomprensione sia in famiglia che a scuola e lui stesso comincia a dubitare delle proprie capacità.
In seguito il genitore attento, magari dopo lunghi tentativi di surrogare a casa il lavoro dell’insegnante con estenuanti e sofferte sedute di lavoro, riconosce le oggettive difficoltà ad apprendere la lettoscrittura, anche se non sa spiegarsene i motivi. Anche il genitore comincia a vivere come un incubo il momento dei compiti a casa, le continue rincorse, le blandizie o anche le minacce per costringere il bambino e leggere una frase o a scrivere una parola. Mentre all’inizio i testardi rifiuti a svolgere i compiti scolastici vengono considerati capricci, ben presto il genitore capisce che sono espressione di una difficoltà autentica, che provoca sofferenza e spesso si accompagna a modificazioni dell’umore e della qualità delle relazioni familiari. A quel punto il genitore tende ad assumere comunque un ruolo di difesa del bambino e, a volte in contrapposizione con la scuola, comincia a cercare presso i vari specialisti una risposta al problema.I bambini, naturalmente, sono i più indifesi e i più incompresi. Dovendo affrontare quotidianamente il calvario delle difficoltà per un tempo lunghissimo (almeno 5 –6 ore al giorno) senza la comprensione e l’aiuto di nessuno reagiscono nei modi più disparati. C’è chi si ammala, chi manifesta disturbi somatici al momento di andare a scuola, chi rifiuta testardamente le attività e chi vi si sottrae opponendosi aggressivamente alle richieste, e infine c’è chi cerca di scomparire nel gruppo dei compagni mascherando il più a lungo possibile le difficoltà con stratagemmi vari.
Spesso nella prima fase il bambino è completamente smarrito perché nemmeno i genitori lo capiscono e vengono anzi vissuti come gli aguzzini che pretendono con insistenza maggiore di quella dell’insegnante di fargli svolgere l’attività tanto odiata. Costringere il bambino dislessico a leggere o a scrivere è altrettanto doloroso che far fare attività motoria ad un bambino spastico, o a fargli ingoiare ripetutamente una medicina amara.
Dopo tutti questi sforzi il bambino a scuola non ottiene alcun riconoscimento, anzi, spesso viene
accusato di non essersi esercitato.
Mentre la scoperta della lettura e della scrittura per la maggioranza dei bambini costituisce spesso una nuova occasione di relazione con gli adulti e con i familiari, per i bambini con difficoltà di apprendimento diviene un incubo, un inferno senza uscita, un’esperienza negativa che spesso segna in modo irreversibile tutto il successivo percorso scolastico.
Gli specialisti rappresentano spesso un altro tasto dolente di questa vicenda. A causa dei ritardi nella diffusione dei contributi della neuropsicologia dell’età evolutiva, in Italia è ancora prevalente fra gli specialisti un approccio al problema di tipo psicodinamico. Vengono messe al centro dell’analisi clinica le reazioni che il bambino oppone al compito, vengono studiati i comportamenti di rifiuto o devitamento che egli organizza e a questi vengono attribuiti gli scarsi risultati scolastici. In altri termini, questo tipo di approccio scambia gli effetti della difficoltà per le sue cause e di conseguenza le misure che vengono suggerite non aiutano ad affrontare gli elementi critici che sono alla base del problema di apprendimento. Il problema di letto-scrittura viene attribuito a un non meglio determinato “blocco psicologico”, una sorta di inibizione ad apprendere la cui origine viene spesso cercata nelle relazioni tra il bambino e gli adulti che gli fanno delle richieste.
In genere vengono suggeriti interventi di natura psicoterapica o comunque misure che tendono a ridurre l’impatto relazionale della prestazione scolastica senza aiutare le parti in causa (insegnanti, genitori e bambino) a prendere coscienza della natura del problema. Si cerca di far star meglio il bambino con i suoi compagni, con la maestra e con i genitori senza prendere atto che il disagio espresso in quel tipo di contesto è fondato sul disturbo dell’apprendimento e che dunque, prima o poi il problema del perché il bambino non apprende, andrà affrontato direttamente e in termini specifici.
Nel migliore dei casi tali interventi riducono le tensioni ma spostano in avanti di qualche anno il confronto con la difficoltà. Gli insegnanti, in virtù della mediazione dello specialista, attenuano le loro richieste in attesa di chissà quale “sblocco psicologico”, ma spesso, le crescenti frustrazioni del bambino o le preoccupazioni dei genitori, o quelle degli insegnanti che non riescono più a gestire il divario con i compagni di classe rompono il precario equilibrio e fanno precipitare la situazione.
Il risultato di questo grande malinteso che si crea fra insegnanti, genitori e specialisti è che non solo il bambino non viene aiutato proprio nella fase in cui ne avrebbe grande bisogno, ma queste errate interpretazioni delle sue difficoltà ostacolano il suo recupero e allontanano l’intrapresa di un percorso di facilitazione.
In questo caso, la mancata conoscenza del disturbo di apprendimento, l’incapacità di coglierne i segni del primo manifestarsi fa sì che la scuola oltre a non aiutare il bambino, inconsapevolmente renda ancora più difficoltoso il suo percorso aggiungendo ostacoli a quelli che già ci sono.
Questo malinteso è molto grave da parte degli insegnanti, che peraltro scontano una mancanza di preparazione specifica in questo ambito, e si traduce in una beffa e in un grave danno per il bambino.
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